Lettera sulla medietà sublime

Gentile e cara Kikki,
All’origine del pensiero e quindi, si parva licet, della spesso sedicente Civiltà Occidentale, c’è una risata. Ce lo racconta Platone: è quella della “servetta trace”, che non potè trattenersi vedendo Talete cadere in un pozzo mentre passeggiando, rapito, perscrutava l’insondabile abisso celeste. Il cielo e il suolo di Mileto, con le loro profonde insidie, furono la scenografia di un aneddoto di fondazione e la prefigurazione, già allora comunque riassuntiva, di quello che l’uomo è sempre stato: una creatura di superficie, presa in una sorta di galla, di patina veleggiante tra gli abissi prospicienti delle sterminatezze eteree e ctonie. Omero diceva di noi che siamo la stirpe che calpesta il suolo, per definizione differenziandoci dal divino e consegnandoci alla necessità dell’appoggio, dell’equilibrio, di una base su cui fondarci.
Il tuo lavoro porta continuamente a galla questi antichi ancoraggi, e i pensieri che ad essi sono connaturati. Come a pelo d’acqua, sul mare, negli avvallamenti d’onda essi sembrano riassorbirsi ma poi, sulle creste, riappaiono; negli avvallamenti sembra che una complessità centripeta e agglutinante converga in un punto di scomparsa, accondiscendendo a un desiderio irrinunciabile di sparizione; poi ecco, invece, la conversione esplosiva, centrifuga, che ci riconsegna la possibilità di ricrearsi del mondo, ma nei limiti del visibile, senza l’eccesso disperdente, quasi scellerato, che la mano aperta e il cuore spesso spiantato dell’arte a volte impongono.
Lo stato di medietà, la condicio dell’uomo, impone invece una pietas alla forma dell’arte, che la stabilizzi in un punto di compensazione del desiderio, di consapevole accoglimento nel suolo su cui poter appoggiare il proprio passo e, fattasi conditio, ci avvolga come una pelle che ci protegga da ogni trascendenza: quella esterna degli accadimenti del mondo e delle infinità siderali, e quella interna delle intimità, spesso non meno insondabili, del nostro corpo e della nostra mente. Lì (qui) sotto la pelle infittiscono, proliferano comunità rizomatiche: il sistema arterioso e venoso, per esempio, che da bambino mi divertivo a seguire con lo sguardo, sulle tavole del dizionario, da una delle periferie più estreme al cuore e viceversa; aprono profondità quasi terrifiche provvidamente mitigate dalla comunanza, dalla consuetudine con il fuori da noi – il cielo con il suo intimo celeste rizoma tracciato dalle costellazioni che rapivano lo sguardo di Talete; la Terra, la cui linfa magmatica radica nei canali che ne innervano la crosta; le piante, che radicano in cielo e in terra.
Mi viene alla mente il gesto di disperante solidarietà che anima “continuerà a crescere tranne che in quel punto” di Giuseppe Penone, con il quale non hai solo delle comunanze formali, dove si fissa un indefinito luogo di giunzione asintotica in cui la mimesi, l’analogia non riescono ad annullarsi nell’identità e per questo il fuori da noi rimane tale e si conserva in sé, ma è sempre per questo che per mimesi, per analogia, in questo fuori da sé si contempera l’umano.
La risata di Mileto, e la tua, sono in questo punto, dove l’inspirazione diviene espirazione, la diastole, sistole; non ci può essere inspirazione infinita, noi abbiamo dei limiti, dobbiamo racchiuderci in un quadro, farci teca in una valigia. Noi, come ci insegna Leopardi, possiamo “fingere” l’infinitudine solo facendoci escludere il “guardo” da “questa” siepe.
Il tuo lavoro procede, nella temperie rizomatica della rete che ci iperconnette e “sfinisce”, e che si costituisce sempre più come un ossessivo fantasma dell’invisibile, della definitiva fine delle analogie e della nostra giunzione identitaria con il fuori di noi, a rendere visibile la consuetudine con il finito che apre all’umano i suoi limiti.
Un grazie di cuore.
Tiziano Olgiari